Magazine – L’Intelligenza Artificiale è più di quello che appare

Intelligenza artificiale e filosofia: quale futuro per la vita umana?

volto astratto
volto astratto

«Tra naturale e artificiale non esiste più differenza: il naturale viene assorbito nella sfera dell’artificiale e al tempo stesso la totalità degli artefatti genera una propria “natura”, cioè una necessità con cui la libertà umana deve confrontarsi in un senso completamente nuovo […]. L’uomo stesso è diventato uno degli oggetti della tecnologia»[1].

Così H. Jonas, nel lontano 1972. Sono trascorsi più di 50 anni e oggi, di fronte alla “quarta rivoluzione”[2], la filosofia è chiamata a nuove responsabilità: le sfide dell’infoscienza e dell’intelligenza artificiale o inorganica, gestita da algoritmi non coscienti, comportano tanto una presa in carico del problema epistemologico del digitale che, informatizzando il mondo, lo de-realizza e disincarna, quanto una riflessione etica e ontologico-sociale sull’ambiente informazionale (infosfera) occupato da agenti naturali (organismi) e da macchine artificiali (artefatti) e, più in generale, sulle procedure operative e algoritmiche, che tuttavia non rendono le macchine degli agenti epistemici e/o dei centri di responsabilità personale.

La realtà virtuale – un paradosso, se l’aggettivo che qualifica la realtà ne produce il capovolgimento, sino a inglobarla nella sua forma sostantivata: il “virtuale” – produce una estraneità dal mondo “reale”, dagli altri e da se stessi, una frizione con le pratiche sociali, una debole consapevolezza della libertà di scelta e una distorta percezione del corporeo-vivente. La realtà “immersiva” o “aumentata”, infatti, non comporta la dismissione del corpo né l’alienazione dal corpo, ma una torsione dell’esperienza percettivo-sensoriale. Così, il passaggio dall’era delle cose all’era delle non-cose – le informazioni, il digitale, la rete, il virtuale – sottrae al presente la sua vocazione di “visione”, scompaginando l’idea filosofica del tempo (oltre che dello spazio, soprattutto di quello pubblico: che sorta di spazio-ambiente è il web? un luogo? un non-luogo? un iper-luogo?).

Secondo B.-C. Han, «lo strato informativo, posato sulle cose come una membrana senza pori, scherma la percezione da qualsiasi intensità. L’informazione rappresenta la realtà, ma la sua predominanza rende difficile esperire la presenza»[3]. Così, da un lato si colloca l’iperumano, l’essere umano trasfigurato dal potere della tecnica sulla natura; dall’altro il subumano, la macchina artificiale che attuerebbe quelle potenzialità di infinitudine e di immortalità, rendendole “reali”. Ma è stato osservato che non siamo più noi umani ad essere online, è la realtà mediata dalle tecnologie ad essere costantemente onlife[4]: gli incerti confini tra organico e artificiale, tra natura e schermo digitale, hanno provocato una commistione tra reale e virtuale e, a cascata, lo scompaginamento dell’oggettività, cioè del punto di forza considerato infallibilmente certo dagli empirismi e verificazionismi di ogni epoca. D’altro lato, la disarticolazione dell’idea di libertà nell’uso di sofisticati sistemi di identificazione biometrica in spazi accessibili al pubblico, oppure nei social network che al dialogo e all’ordinary language hanno sostituito emoticons (emotion e icon), hashtags (# e tag) e likes, ha prodotto un depauperamento culturale e linguistico, un problema di attendibilità delle fonti, oltre a un atomismo omologante e globale, difficile da gestire anche per il legislatore della società iperconnessa: «Le informazioni non si lasciano possedere facilmente come le cose, per cui si fa largo la sensazione che appartengano a tutti»[5]. È la «virtualizzazione del reale», come risultato delle nostre manipolazioni e come «perdita di consistenza dell’esistente»[6].

Foto di UK Black Tech su Unsplash

Se «la profanazione della natura e la civilizzazione dell’umanità vanno di pari passo»[7], la filosofia è chiamata a quesiti ineludibili: quale orizzonte, se l’umano scomparirà per superamento? Quale futuro, se violando l’ambiente e la casa comune rischieremo l’estinzione per autodistruzione? Secondo Jonas, la techne si è trasformata «in una spinta in avanti inesauribile della specie, nella sua impresa più significativa: il suo progresso illimitato, in direzione di mete sempre più elevate, tende a essere identificato con la vocazione dell’uomo, e la sua conquista di un controllo totale sulle cose e sull’uomo stesso appare come il compimento del suo destino»[8].

L’intelligenza artificiale apre scenari che trascendono gli ambiti della tecnologia, dell’informatica e dell’ingegneria, perché riguardano il senso e il significato della vita umana: se il sodalizio di economia e tecnologia privilegia il criterio dell’efficienza, ciò suscita una riflessione «su un aspetto tanto spesso trascurato nella mentalità tecnocratica ed efficientista, quanto decisivo per lo sviluppo personale e sociale: il “senso del limite”»[9]. Filosoficamente, potremmo sviluppare la questione anche sul limite come senso, potenzialità e risorsa[10], dunque sulla vita e sulla morte, su logos e pathos. Nella civiltà ellenica, essere edotti dal pathos (oltre che dal logos) consente di bere un sorso dal calice dell’immortalità: ciò significa che patire è conditio sine qua non dell’umano? Quale rapporto tra questa prospettiva e l’immortalità, il superamento del limite e della morte, agognati dal transumanesimo?

Un’efficace risposta si trova nelle pagine di M. Scheler sul tema della libertà come affrancamento dalla causalità meccanica e dal determinismo: «Vedere veramente la morte significa vedere allo stesso tempo qualcosa in noi che la supera, la sorpassa, e rispetto a cui essa non ha alcun potere; significa vederla non come limite, ma come “limite” del nostro essere e del nostro tendere, cioè come un tratto oltre al quale giace ancora qualcosa di noi, significa vedere che se al nostro essere viene sottratta la vita, essa non è uguale al nulla, ma piuttosto all’infinito»[11].

«Il pathos è l’inizio del pensiero», scrive Han, «l’intelligenza artificiale è apatica, vale a dire senza pathos, senza passione. Essa calcola»[12]. Ed è un fatto che la nostra civiltà sia maggiormente progredita nella lotta contro il dolore, che nell’intelligenza della sofferenza – ignorando, disconoscendo o rimuovendo che, mentre il dolore si conosce per esperienza, l’esperienza della sofferenza genera una conoscenza nuova. Qui si colloca la filosofia come testimonianza, impegno e compito, per integrare le risorse della scienza e della tecnologia e promuovere l’umano nella sua unicità non anonima.

Foto di devn su Unsplash

Come osservava già Jonas, i formidabili guadagni teorici delle scienze, soprattutto nel campo della biologia cellulare, «infondono la speranza concreta di prolungare, forse di estendere all’infinito la durata della vita, mediante la neutralizzazione dei processi biochimici dell’invecchiamento. La morte non appare più come una necessità insita nella natura della vita, ma come una disfunzione organica evitabile, sulla quale, almeno in teoria, è possibile intervenire e che può essere ritardata. L’eterno desiderio dell’uomo mortale sembra vicino ad essere soddisfatto. E per la prima volta dobbiamo chiederci seriamente: “Quanto è desiderabile tutto questo? Quanto è desiderabile per l’individuo, e quanto per la specie?”. Questi interrogativi implicano questioni come il senso autentico della nostra finitudine, l’atteggiamento nei confronti della morte e l’importanza dell’equilibrio tra morte e procreazione dal punto di vista generale della biologia»[13].

Dunque la filosofia è ancora necessaria, forse oggi più che mai. Tra le tante autorevoli voci, lo segnalava anche Gadamer: «Anche per il futuro è necessario assumersi la fatica del concetto […], anche se si proclama morta la filosofia»[14].

Immagine: Foto di h heyerlein su Unsplash


[1] H. Jonas, Tecnologia e responsabilità. Riflessioni sui nuovi compiti per l’etica, in Id., Frontiere della vita, frontiere della tecnica, Il Mulino, Bologna 2011, p. 137; p. 141.

[2] Cfr. L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina, Milano 2017.

[3] B.-C. Han, Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale, Einaudi, Torino 20232, p. 61.

[4] Cfr. L. Floridi (ed.), The Onlife Manifesto. Being Human in a Hyperconnected Era, Springer, Heidelberg-New York-Dordrecht-London 2015.

[5] B.-C. Han, Le non cose, cit., p. 18.

[6] A. Fabris, Per un’etica del virtuale, in Id. (ed.), Etica del virtuale, Vita e Pensiero, Milano 2007, p. 16.

[7] H. Jonas, Tecnologia e responsabilità, cit., pp. 127-128.

[8] Ivi, p. 136.

[9] Francesco, Intelligenza artificiale e pace, Messaggio per la LVII Giornata Mondiale della Pace, 1o gennaio 2024, n. 4.

[10] Cfr. ad es. J.-L. Chrétien, Fragilité, Éd. De Minuit, Paris 2017; Id., La joie spacieuse. Essai sur la dilatation, Éd. De Minuit, Paris 2007.

[11] M. Scheler, La morte nel contesto di vita morale, in Id., Sfera assoluta e posizione reale dell’idea di Dio, Franco Angeli, Milano 2014, p. 120.

[12] B.-C. Han, Le non cose, cit., p. 46.

[13] H. Jonas, Tecnologia e responsabilità, cit., pp. 141-142.

[14] H.G. Gadamer, La ragione nell’età della scienza, il Melangolo, Genova 1982, pp. 34-35.