Una ricerca di Stanford e della società di consulenza BetterUp, pubblicata su Harvard Business Review, fotografa un fenomeno crescente negli uffici: l’avanzare del cosiddetto workslop, ovvero contenuti generati con strumenti di IA apparentemente utili e mascherati come un buon lavoro, che però mancano della sostanza per far realmente avanzare un compito. Su 1.150 lavoratori intervistati, molti dichiarano di dover passare più tempo a correggere questi materiali, e a pagarne il prezzo sembrano essere le relazioni interpersonali. Quasi la metà percepisce infatti i colleghi che ricorrono all’IA come meno creativi, affidabili e competenti.
A questo quadro si aggiunge un’analisi del Financial Times, che ha rilevato che le grandi aziende faticano ad articolare benefici specifici dall’adozione dell’IA, mentre riescono chiaramente a identificarne rischi e svantaggi. Anche l’ormai noto studio del MIT documenta che il 95% delle organizzazioni non ottiene alcun ritorno dagli investimenti miliardari nell’IA generativa, nonostante l’uso sul lavoro sia raddoppiato negli ultimi due anni (dati Gallup).
Il problema principale potrebbe risiedere in pratiche d’uso poco mirate e nella mancanza di casi d’uso chiari, con l’effetto collaterale di trasferire lavoro cognitivo da macchine a esseri umani. Ad ogni modo, il risultato sembra essere un ecosistema produttivo in cui l’IA genera più rumore e attriti che valore, logorando la collaborazione tra colleghi e alimentando quella che alcuni studiosi definiscono la “GenAI Divide”, ovvero una distanza crescente tra le aspettative tecnologiche e i risultati effettivi.
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Immagine generata tramite DALL-E 3. Tutti i diritti sono riservati. Università di Torino (09/05/2025).

